“MARIO”

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Alle sette di sera tutto è blu.

L’aria, il paesaggio che scorre oltre il finestrino appannato, la strada verso l’aeroporto, sono blu.

I volti della gente che torna a casa hanno la stessa tinta monocromatica della pelle immersa nell’acqua.

Il contrasto con l’interno del taxi non potrebbe essere più netto. Qui è tutto arancione. Un caldo e soffocante arancione.

La testa di Carlo ondeggia appena, la musica che proviene dall’autoradio gli ricorda un film. Prova a farsi venire in mente quel maledetto titolo, ma non ci riesce.

Sa che la temperatura perfetta tra il caldo opprimente dell’abitacolo, odoroso di plastica vecchia, e l’inverno al di là dei vetri è proprio a un palmo da lui.

Basterebbe appoggiarci la fronte ma non lo fa.

La mascherina, il peso di quella partenza improvvisa, il riscaldamento del vecchio taxi sul dieci, rosso. Non respira.

Quel rifiuto di contatto, lo fa sentire odioso come quei tipetti universitari che prendono l’aperitivo al bar da lui. Gli sudano le mani e immagina quei damerini: stirati negli abiti tesi, il volto stropicciato di disgusto per il mondo e l’aria decisamente snob.

Sono così sensibili da avvertire il viscido sudore altrui, l’epidermide umana posarglisi addosso, penetrargli nelle narici, ma quando devono mangiare e bere toccano tutto avidamente, addirittura si leccano le dita.

Non li ha mai capiti quelli. Hanno schifo dell’umanità e poi si fanno baciare in bocca dai loro cani.

Anche Mara ha voluto a tutti i costi un cagnolino. Lui controvoglia ne ha comprato uno, di quelli piccoli, ed è finito per innamorarsene più di lei.

Carlo guarda fuori e sorride al pensiero di quella voce da imbecille che usano con lui.

La fanno entrambi quando rincasano mentre corre loro incontro, festoso.

Vorrebbero fare l’amore perché si desiderano ancora, ma dopo aver giocato tutta la sera con il cane sono troppo stanchi e sazi di piacere. Così rimandano il sesso, ma si addormentano sempre abbracciati.

La sera che Poldino è stato male (semplici coliche avrebbe detto poi il veterinario) piansero, ma in quell’occasione le lingue di ciascuno sono rimaste ben stipate nelle proprie bocche.

Carlo non è schizzinoso, anzi si lascia volentieri definire un tipo.

Un tipo da sacco a pelo. Prima di mettersi con Mara aveva trascorso più di qualche notte sull’asfalto, in attesa di assistere a un concerto, o in un campeggio da vacanzieri squattrinati.

In un paio di occasioni – lo ricorda sempre con una punta di orgogliosa ribellione – era stato una settimana senza lavarsi.

Un tipo da anelli grossi su tutte le dita e numerosi bracciali di pelle ai polsi virili. Ma i tatuaggi li preferiva eleganti, con qualche teschio qua e là. Il tutto però era distribuito con una tale armonia da farlo apparire artista e opera d’arte insieme.

Immaginare quanti avevano poggiato la fronte su quel vetro, pensare al loro sudore, alla pelle schiacciata proprio in quel punto, gli dà noia. Per questo, oggi non si sente affatto quel tipo.

Niente. “Non ce la metto la testa sul vetro.” Così, nonostante la sonnolenza, decide una volta per tutte di tenerla in equilibrio sul collo magro.

Fra l’arancio afoso del taxi e il blu profondo del paesaggio, Carlo guarda la strada. Dal finestrino intravede il piccolo paese che, come tutti quelli limitrofi, viene tagliato a metà dalla statale. Quante volte ci era passato.

La nuca calva del tassista oscilla.

Di tanto in tanto, per non addormentarsi, Carlo guarda l’orologio sommerso dai bracciali.

Qualche metro sopra i tetti bassi delle case, scorge delle fontane di luce nel cielo. Dimentica Mara, Poldino, l’ora, la noia e strabuzza la vista posando il naso al vetro che poco prima aveva tanto schifato. Un bambino davanti al negozio di giocattoli.

I punti luminosi, l’oro, l’argento, si susseguono senza mai finire

uno,

due,

dieci,

quindici… si aprono a ombrello nel cielo ormai nero. Spariscono cadendo subito, ma spegnendosi piano.

I piccoli scoppiettii in lontananza accompagnano un’atmosfera festosa e Carlo avverte salire dalla pancia, rapido con il suo muto grido di gioia, l’arrivo del buonumore. Gli esce da sotto i tatuaggi, e scorre lungo i peli del braccio, irti come aghi.

Si volta di scatto verso il tassista che non ha fatto una piega. “Magari non si è accorto di nulla, impegnato com’è nella guida.”

«È la festa del paese?» chiede rompendo il silenzio.

«No è Mario con il suo negozio.»

La voce del tassista, che fino a quel momento era stato solo una nuca fischiettante, sembra aver risposto a un’altra domanda.

Carlo non ci prova neanche a capire, si limita a guardarlo per un istante con l’aria di chi osserva una valanga risalire a monte.

Torna a cercare i fuochi e con loro anche il buonumore, ma tutto si è spento e il cielo è tornato vuoto e scuro.

«È da un po’ che se ne vedono in paese.»

“Allora se ne è accorto!” pensa voltandosi di scatto verso l’uomo alla guida.

«A ogni ora, sette giorni su sette, c’è sempre qualcuno che li fa partire. Dai prati, dai cortili, perfino dai terrazzi.»

«Mi scusi non ho capito.»

Carlo si sistema la mascherina e abbraccia il poggiatesta davanti a lui per avvicinare l’orecchio al tassista.

Eccone altri, oltre il parabrezza, dopo quel palazzo: fontane, scintille, colori, gioia.

«Un mese fa, vicino alla farmacia hanno aperto un negozietto di fuochi d’artificio. È un buco, mica chissà cosa! Sta in una porta che nessuno aveva mai notato prima. Nemmeno io che ci passo davanti duecento volte al giorno l’avevo mai vista: una scrivania, uno scaffaletto con scatole e fotografie dei fuochi. C’è anche l’insegna adesso: fuochi pirotecnici di mario.»

«E questo Mario cosa c’entra? Mica li regala i fuochi! Li vende giusto? O li spara lui?»

L’attenzione di Carlo è completamente assorbita, adesso.

Il tassista divertito scoppia in una risata. «No no, quale “regala”! Li vende e se li fa pagare pure bene!»

«Mi scusi, io continuo a non capire: uno apre un negozio di fuochi d’artificio, un buco

di negozio di paese e da quel momento tutti sparano botti dalla mattina alla sera, sette giorni su sette?»

Il tassista guarda Carlo dallo specchietto e riprende: «Nessuno credeva a quel pazzo. Si figuri: uno che si ficca in testa di vendere botti in un momento così difficile per tutti, lì dentro, solo come un pirla, seduto al tavolo ad aspettare un cliente. Faceva pure tenerezza mi creda, per non dire pena, eppure… Pensi che neppure si chiama Mario quello. È indiano… o cose così.»

«E cos’è successo invece?» chiede mentre oltre la curva della statale se ne vedono altri più colorati.

«Non è successo niente.» Dopo una breve pausa il tassista riprese facendo i numeri con le dita: «In paese abbiamo tre farmacie, una casa di riposo, due studi medici, una clinica privata per animali, quattro, e dico quattro, banche, un centro commerciale, mobilifici, panetterie, fiorai, tabacchi… ogni ben di Dio di servizi. Ma mi creda, senza Mario sembravamo tutti tristi e stanchi e, nonostante tutto fosse a portata di mano, ci mancava sempre qualcosa.

Io lavoro qui attorno, sa com’è: aeroporto, su e giù, senza orari…

La vedo la gente che cammina a testa bassa, che non sorride mai, che fa sempre la stessa strada agli stessi orari. Poi con tutto quello che è successo quest’anno! Chi ce lo doveva dire a noi che ci saremmo trovati in questo stato?

La gente ha paura di perdere il lavoro, la casa, i propri cari.

Nessuno pensa più a festeggiare un compleanno, l’anniversario, le cose belle insomma.

Chi ne ha più la voglia?

Ci pensi. Facciamo la fila davanti alle farmacie e ai supermercati! L’avrebbe mai detto lei? Io no di certo!

Poi, in mezzo a tutto questo niente, un bel giorno arriva Mario – o come cazzo si chiama lui – con questa follia del negozio di giochi pirotecnici.

Silenzioso, fuori luogo, giudicato da tutti un pazzo per quella sua attività appena aperta in mezzo a sto macello di gente che invece chiude, che Dio lo benedica.

E a qualcuno è tornato in mente un compleanno, un anniversario, una festa insomma. Così abbiamo visto il primo fuoco e c’è venuto il buonumore.

A lei non è venuto il buonumore quando l’ha visto poco fa? L’ho notato che ha sorriso sa? Aveva un’aria così seria prima!

Quel giorno, come tutti i giorni da quando è arrivato, in paese c’era così tanto silenzio per le strade e nelle case che, a sentire i colpi fuori, ci siamo spaventati.

A mia moglie quasi viene un colpo!

Pensava si stessero sparando dai balconi!

E invece era solo qualcuno che si era ricordato di una cosa bella e ha comprato i fuochi di Mario.

Ce le siamo dimenticate le cose belle! I sorrisi, le sorprese, chi ci pensava più.

Mario ce le ha restituite.

Ora quando meno te l’aspetti ne vedi uno nel cielo, dietro una casa, poi un altro al campetto e dopo poco uno ancora oltre il bosco e pensi: “Non siamo mica tutti tristi! Qualcuno sorride alla vita, si emoziona ancora.”

Al suono incessante delle ambulanze pensavamo tutti che fosse finita. Io e mia moglie ci addormentavamo abbracciati per farci coraggio l’uno con l’altra.

Al nostro anniversario sono andato da Mario e ho preso la batteria “DRAGO DI FUOCO”.

Lei ha riso così tanto! E dopo abbiamo fatto l’amore.

Non facevamo più l’amore perché sentivamo le ambulanze attorno, ci si sentiva un po’ in colpa a stare bene, a fare l’amore.

Lo sa che i fuochi di Mario qualche volta noi li regaliamo?»

Carlo nuotava ormai nel mare di quella storia, al punto da non desiderare nemmeno più di arrivare con le canoniche tre ore di anticipo all’aeroporto.

«In che senso li regalate?»

«Senta cosa ci siamo inventati…»

«Mi dia del tu la prego. Io sono Carlo».

Non gli tende la mano perché non ci si deve toccare.

«Roberto, piacere… Allora senti cosa abbiamo fatto: una coppia di anziani che abita di fronte a noi festeggiava il cinquantesimo di matrimonio, non potendo però radunare la famiglia e nemmeno uscire, l’avrebbero passato tappati da soli in casa e la cosa ci ha fatto tenerezza. Allora, insieme a tutti i residenti della via, abbiamo avuto una pensata, così per non fargli pesare troppo la solitudine e dargli anche un poco di coraggio. Abbiamo fatto una colletta e da Mario abbiamo preso quattro batterie “DRAGO DI FUOCO” e due “URAGANO”.

Mario ci ha anche regalato una grossa “pedana” di fontane.

Abbiamo acceso tutto nel piazzale davanti a casa. Dovevi vedere come si abbracciavano stretti quei due vecchietti.

È stato bellissimo».

«Quello è stato il loro ultimo momento davvero felice.

Un mese dopo sono arrivati quelli con le tute bianche, come in televisione, e hanno portato via Giorgio. Dopo due settimane, si sono portati via anche Luisa. Sempre quelli con le tute bianche.

Noi sapevamo cosa voleva dire quando arrivavano, perché al telegiornale non si vede altro.

Non sono più tornati.

Ora la casa è in vendita, ma grazie a Mario li abbiamo visti felici, anche se solo da dietro le finestre.

Abbiamo applaudito tutti quando si sono baciati e ci hanno salutato con la mano.

Mario è come quell’uomo che si mette la pancia e la barba finta per portare i regali a Natale. Come il suono della moneta nel cappello del mendicante fuori dal supermercato.

Non è nessuno Mario, non sembra nessuno, ma quando passa un Mario nella vita succede sempre qualcosa di bello.»

L’aeroporto è deserto, vola solo chi non può farne a meno.

«Siamo arrivati. Con quale compagnia voli, Carlo? Ti accompagno alla porta giusta.»

Carlo non risponde.

Piange.

«Che succede? Ti sei commosso?»

Si asciuga le lacrime, saluta e ringrazia Roberto il tassista.

Gli stringe la mano anche se non si può, “chi se ne frega”.

Paga e scende. Entra nell’aerostazione e compone il numero di Mara.

«Che hai? Stai piangendo?»

«Sì ma non preoccuparti, non è successo niente. Ho appena saputo che i miei nonni se ne sono andati, felici e innamorati. Prendo l’aereo, sbrigo questa cosa e torno, ma prima di venire a casa devo fare una commissione. Non venirmi a prendere, non serve, vengo in taxi.»

«Cosa devi fare?»

«Passo da un tizio che si chiama Mario e ha un negozio, ma non chiedermi niente. Voglio farti una sorpresa.»